di Paolo Uliana

Riflessioni 2

Seconda parte dell’ auto-intervista, nella quale si parla della progettazione

 

Come sviluppi un progetto?

Come dicevo, spesso l’idea si forma intorno ad un oggetto interessante, che immagino inserito in un progetto facente parte di una delle categorie sulle quali lavoro.

Quali sono queste categorie?

Per ora sono tre: orizzontale, verticale e basculante.
Nella prima l’elemento rotante è orizzontale, e gira con vento proveniente da qualsiasi direzione senza bisogno di essere orientato. Le pale devono essere almeno tre, altrimenti il rotore potrebbe disporsi “a bandiera” e fermarsi anche in presenza di vento.
Nella seconda categoria il rotore è verticale e deve essere orientato nella direzione del vento da un timone, quindi il movimento è più complesso.
Le opere basculanti sono pale bilanciate che si abbassano sotto l’azione del vento  e che vengono riportate alla posizione originale da un contrappeso o da una molla (più spesso da entrambi), anche in questo caso le pale vanno orientate secondo il vento. Il movimento è più interessante di quanto può sembrare la descrizione.
La combinazione di queste tre categorie è ovviamente possibile ma non la ho ancora sperimentata.

Torniamo allo sviluppo del progetto

Una volta stabilita la categoria, è piuttosto facile immaginare un’opera. La cosa difficile è risolvere i problemi tecnici in modo semplice ed elegante, cosa che è alla base del mio lavoro.
Fino a quando ho sviluppato opere di dimensioni compatte tutto il procedimento si è sviluppato “a mente”, senza schemi o progetti grafici. Quando le dimensioni sono aumentate ho avuto bisogno di un supporto progettuale grafico per capire meglio le proporzioni senza procedere di getto, come facevo prima.
Effettivamente, se vedi i vecchi progetti, prima la fase di realizzazione era molto breve, uno o due giorni. Tutta l’opera si sviluppava in testa e realizzarla era piuttosto facile.
Quando ho iniziato ad esplorare il movimento di opere più grandi, che sono più lente e difficili da bilanciare, ho sentito il bisogno di studiare un modello grafico per calibrare le dimensioni delle varie parti.

Quindi si tratta di un procedimento analitico

Solo in parte. In effetti la mia idea è di realizzare le opere con il minimo di controllo dimensionale e numerico, nel senso che non mi sento portato ad agire – o per meglio dire come sono costretto dalle norme ad agire – come nella professione, misurando e valutando tutto. Mi colpì molto un aneddoto su Nervi, che progettava strutture ad occhio che venivano sempre convalidate dal calcolo. Sono convinto che l’approccio olistico sia più valido di quello analitico, per lo meno è più soddisfacente. Tra l’altro sono convinto che un metodo analitico non sia privo di sorprese e che non sia possibile progettare fino al minimo dettaglio senza modificare nulla in caso di esecuzione.
Mi piace avere conferma di una soluzione senza averla calcolata prima ma mi piace altrettanto sbagliare, come nel caso del mio progetto n°9 che non ha funzionato. Ho imparato molto da quell’errore.
Anche quando mi capita di sottovalutare le azioni alle quali sono sottoposte alcune parti, che quindi si rompono, non provo né frustrazione né rabbia ma quasi divertimento. Come se pensassi: “guarda che stupido: come poteva funzionare così?”.

Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nella realizzazione di un’opera?

Non ci sono vere e proprie difficoltà, durante il mio lavoro. L’idea è come un flusso che risolve qualsiasi problema; una volta avuta è quasi come se l’opera si costruisse da sola.
Anche se i miei lavori possono apparire precisi, meccanici, quasi logicamente affilati, sono in effetti la rappresentazione fisica di un pensiero immateriale.
L’idea nasce, si forma, si concretizza senza che metta mano ad un trapano o tocchi un materiale. Quando viene il momento, si tratta soltanto di mettere insieme i pezzi per concretizzare l’idea. In questa fase  sono molto disponibile al compromesso per il raggiungimento del risultato. Lavorando sul materiale l’idea stessa si piega alla concretezza ma a quel punto l’opera è lì, davanti a me, ed il più è fatto.

Tu inizi a lavorare in questo campo all’età di 46 anni.  Perché aspettare tanto?

Giusto ieri ho sentito citare una frase di Jorge Amado che più o meno dice che la vera libertà consiste nell’avere la possibilità di esprimersi. Probabilmente prima non ero libero, nel senso che mi sentivo chiuso nelle opportunità che pensavo mi fossero concesse. Nel 1984, quando avevo “l’età giusta”, lavorai nella computer-art italiana insieme a pochi altri che esploravano con me i nuovi orizzonti dell’arte elettronica. Partecipai a diverse rassegne, mi sentivo spinto da grande entusiasmo, ma il confronto con la critica ed il sistema dell’arte mi confuse al punto da smettere di lavorare in quel campo. Oggi penso che in quell’epoca non ero abbastanza libero.
Non credo che sia strano accorgersi di essere chiuso in una gabbia di preconcetti solo dopo aver pazientemente lavorato per scoprirli, rimovendoli uno ad uno; è un lavoro che richiede tempo e consapevolezza. Anche dedicare il mio lavoro al vento, che è un forte simbolo di libertà, non è evidentemente casuale.
Questa intervista è la prima occasione nella quale metto in chiaro le mie idee. Fino ad ora ho semplicemente assecondato un impulso a fare, senza chiedermi il perché. Ho ascoltato con attenzione i pareri ed i suggerimenti delle persone sulle le mie opere, ma nessuno di questi mi ha confuso o mi ha fatto dubitare sulla validità del mio lavoro.
Ho dato retta solo al vento.

 

Terza (ed ultima) parte dell’ auto-intervista, nella quale si fa un po’ di filosofia