di Paolo Uliana

Riflessioni 3

Terza (ed ultima) parte dell’ auto-intervista, nella quale si fa un po’ di filosofia

Senti la mancanza di una formazione specifica o di un maestro?

Si può dire che in tutta la vita ho avuto tanti maestri ma nessuno in modo specifico. Una volta pensavo che mi sarebbe piaciuto averlo. Ora penso che se non lo ho mai avuto non posso nemmeno sapere se mi sarebbe piaciuto veramente, o che se ne avessi davvero avuto bisogno forse l’avrei trovato.
Certo che sono stato comunque molto suggestionato da alcuni autori.
La prima volta che ho visto un’opera di Tinguely mi sono letteralmente commosso, dopo mezz’ora di vera e propria contemplazione e studio del suo movimento. La cosa divertente è che il movimento in effetti l’ho dedotto, perché come al solito la scultura era ferma (credo che l’avessero spenta perché avrebbe prodotto un rumore infernale). Ho trovato quella scultura una cosa stupenda perché conciliava perfettamente l’estetica con la meccanica e, più in generale, la tecnica. Inoltre era costruita con pezzi di recupero saldati alla meglio e, come ho già detto, questo mi piace parecchio.
Calder invece non mi ispira molto. Anche se usa il vento. Ma devo dire che ho visto poche delle sue opere dal vivo e forse non lo conosco abbastanza.
Per quanto riguarda la mancanza di formazione specifica non saprei dirti. Penso che forse la formazione possa venire anche dopo, nel senso che prima vorrei avere veramente chiaro quello che mi serve, anche perché In un certo senso ho paura che se dovessi acquisire una grande quantità di informazioni potrei fare confusione e di perdere quindi di naturalezza.

È la seconda volta che parli in modo negativo della confusione, potresti chiarire il concetto?

Quello che intendo dire quando parlo di confusione è che di fronte ad una grande quantità di dati io non riesco ad organizzarli in nessun modo. Per esempio non riesco ad appassionami agli scacchi o a giochi analoghi: non riesco a trovare una soluzione di fronte a tante possibili scelte, quindi gioco d’istinto e perdo inesorabilmente dopo poche mosse.
Non riesco ad avere un vero e proprio metodo di lavoro, il mio bancone è sempre in disordine, non ho orari, posso fare due girini in due giorni e fermarmi per due mesi.

Girini?

Tra me e me e con gli amici chiamo così i miei lavori. Il termine deriva dal fatto che girano, anche se alcuni non girano affatto. Mi rendo conto che è un nome abbastanza stupido, ma continuo ad usarlo come termine affettuoso. Ci sono stati tentativi di cambiarlo ma ti risparmio i risultati, ad un certo punto ho smesso di pensarci quando mi sono detto che tutto sommato il nome andava bene per me, ma non era necessario.
Poi è un termine “leggero” che per ora va benissimo.

Esiste una collocazione che tu ritieni ideale per le tue opere?

Qualsiasi posto dove ci sia vento va bene, ovviamente. Il vero problema è che sono meccanismi che hanno bisogno di una manutenzione più o meno assidua: in caso di vento molto forte qualche pezzo si può rompere, se uso materiali non inossidabili la ruggine li deteriora, i cuscinetti vanno lubrificati. Non sono operazioni da fare ogni settimana, ma non si può installare un’opera e dimenticarla lì.
Questo mi rende perplesso, perché non ho mai riflettuto a fondo sulla questione. Mi potrebbe anche andare bene che i miei lavori abbiano un ciclo vitale e che abbiano bisogno di cure.
Potrei includere un libretto di uso e manutenzione.

Che rapporto c’è tra l’aspetto di un’opera ed il suo funzionamento?

Direi che è questo rapporto il punto focale del mio lavoro.
Ogni parte delle mie opere è funzionale e necessaria al movimento. Non ci sono parti inutili o non giustificate da una motivazione tecnica.
Ho in modo diverso ripreso le finalità delle mie opere di computer-art. Quello che mi interessa e che mi interessava allora è affermare l’estetica della tecnica, non l’uso della tecnica per ottenere un risultato estetico.
Mi rendo conto che questo discorso è stato già fatto e si fa tuttora, ma ho voglia di dire la mia. Credo che ce ne sia bisogno, perché lo sviluppo che ha avuto la tecnologia nell’ultimo secolo è stato troppo veloce, e assimilato solo in parte. Mi sembra che l’umanità stia ancora digerendo le macchine a vapore. Ci vuole tempo, più tempo, e soprattutto non bisogna dare niente per scontato.

Che rapporto hanno le tue opere rispetto alla rivoluzione elettronica?

Come dicevo prima, ci vuole tempo. Secondo me l’elettronica è troppo avanti rispetto all’uomo.
Non intendo dire rispetto all’uso che se ne fa: chiunque sa usare le apparecchiature elettroniche; ma l’uomo proviene da migliaia di anni di cultura del tutto priva di oggetti così complicati. L’umanità è troppo abituata a capire ciò che usa.
Perché c’è ancora tanta gente che subisce il fascino della spada o dell’aratro, o di un mulino? Perché sono belli? E perché lo sono? Secondo me perché li ha assimilati.
Uno degli aspetti più divertenti del mio lavoro è l’andare in giro per negozi di computer a farmi regalare hard disk rotti. Di tanto in tanto faccio il mio giro e torno a casa con tre-quattro di questi prodotti di alta tecnologia e, come un uomo primitivo, li smonto pezzo per pezzo. Metto da parte i dischi, i motori, le testine, le viti, e butto via tutto il resto (li porto al riciclaggio, non sono così primitivo).
Un motore diventerà quindi il pignone di un rotore e con i suoi bei cuscinetti a sfere miniaturizzati girerà benissimo senza attrito. Un bel disco di acciaio cromato sarà un timone. Non trovi divertente che quel pezzo di acciaio cromato poteva contenere dati per 20 gigabyte? E che quel motore viene fatto girare dal vento e non fa girare piè nulla?
Mi piace abbassare il livello tecnologico ed innalzare il livello estetico, mi sembra di pareggiare i conti, di farli tornare di più.
Per questo dentro di me sorrido quando qualcuno mi chiede se i miei girini producono corrente elettrica (“corrente elettrica? e che cos’è?”).

E invece, come entri in rapporto con il sistema dell’arte?

Per come la vedo io questo momento storico è per certi versi molto interessante: in un mare di persone che la fanno fuori dal vaso, già il fatto di centrare l’obbiettivo è rilevante e degno di attenzione. Certo che questa particolare attitudine, per non dire maestria, non è una moneta di scambio corrente nel nostro sistema economico, che ormai avvolge ed incorpora tutte le forme di espressione dell’uomo. Tutto quello che è fuori dal sistema si avvizzisce e muore, ma solo secondo un metro di valutazione molto particolare, uno dei tanti possibili, che però è quello comunemente usato.
Ti faccio un esempio: ad un certo momento ho iniziato a pensare che i miei lavori potevano essere venduti a chi ne volesse uno. Ho cercato un po’ su internet per farmi un’idea della cifra. Ora, se prendi uno qualsiasi dei miei lavori, potresi venderlo a 50 o 5000. Questo è un fatto. Non ha importanza cosa mi diano 50 o 5000 volte. A questo punto il fatto insensato è che un oggetto fisico possa essere valutato mille volte di più se lo si vende in un modo piuttosto che un altro; è evidente che il prezzo di un oggetto non dipende più dall’oggetto in sé ma dal modo in cui si vende. Non è nemmeno una questione di qualità, che troverei molto più ragionevole, ma una questione di marketing, che davvero trovo aberrante.
Quindi, come vedi, il mio rapporto con il sistema dell’arte non solo non esiste ma mi rende molto perplesso, perché credo che un passo molto importante sia quello di valorizzare le proprie opere, nel senso di dargli un valore “oggettivo”. Solo che questo valore le opere in sé non lo hanno, devo darglielo io, e qui davvero mi sento in imbarazzo.